Con il termine ‘verderame’ si intendono in realtà prodotti abbastanza diversi tra loro come poltiglia bordolese, ossicloruro di rame, idrossido di rame e solfato tribasico di rame.
Sono formulazioni entrate nell’uso alla fine dell’800 per contrastare malattie fungine (soprattutto la ticchiolatura e la peronospera) e batteriche. Ancora oggi sono adoperate a livello casalingo, in agricoltura biologica,e anche nell’integrato. Questo però non deve trarci in inganno: sono formulati comunque pericolosi per la nostra salute e l’ambiente. Vanno quindi adoperati nelle giuste modalità, dosi e tempistiche, quando è veramente necessario. Inoltre l’operatore deve munirsi di apposite attrezzature di protezione (quali mascherina, tutte, guanti) per evitare di inalare il prodotto e che venga a contatto con la pelle.
Tra tutte la più utilizzata è probabilmente la poltiglia bordolese. Contiene solfato di rame mescolato a idrossido di calcio (di solito in proporzione 1: 0,7 o 1: 0,8). L’efficacia del prodotto è dato dall’acidità del solfato di rame che però è naturalmente poco persistente. Per legare maggiormente si aggiunge l’idrossido di calcio: più aumenta proporzionalmente nella miscela più il miscuglio sarà persistente, ma diminuirà l’efficacia. Si usa soprattutto per combattere le crittogame.
L’ossicloruro di rame e l’ossicloruro tetraramico differiscono anche loro per efficienza e persistenza. Il primo è più efficace sul lungo periodo e rimane di più sulla foglia, il secondo ha alta efficacia ma si disperde facilmente. Sono i prodotti su cui dobbiamo puntare se vogliamo combattere le batteriosi o per la disinfezione dei tagli da potatura.
In ultimo abbiamo il solfato tribasico di rame: ha una azione simile alla poltiglia bordolese, ma bisogna prestare attenzione al suo utilizzo perché per molte piante (specialmente le drupacee) è fitotossico, specialmente sui tessuti non lignificati.
La spiccata azione anticrittogamica dei rameici è legata alla loro capacità di liberare degli ioni che rendono inefficaci le spore batteriche. Si tratta però di un prodotto da contatto: non penetra all’interno dei tessuti e, d’altra parte, costituisce solamente un preventivo e mai un curativo nei confronti di una infezione già in atto. Perché risultino davvero efficaci devono coprire gran parte della superficie e la loro applicazione va ripetuta in caso di pioggia che può dilavare in parte o completamente il fitofarmaco.
Si utilizzano quindi su tutto il fogliame e sulle gemme durante il periodo vegetativo. In inverno invece può essere utile la ‘disinfezione’ della corteccia con questi preparati (specialmente l’ossicloruro) per ridurre al minimo le spore svernanti di corineo, monilia e peronospora.
Se disponiamo di un atomizzatore faremo un ottimo lavoro in profondità e non sarà necessario ricorrere a spennellature di tutto il tronco come viene fatto tradizionalmente.
I rameici hanno un ampio spettro di efficacia. Si possono usare per esempio per le peronospore, per la ticchiolatura, ruggini, septoriosi, alternariosi, cercosporiosi, colpo di fuoco batterico e ancora altre patologie. Ricordiamo però che assolutamente non hanno efficacia nei confronti dell’oidio per cui bisogna utilizzare varie formulazioni a base di zolfo o prodotti di sintesi specifici.
Precisiamo anche che i rameici non sono insetticidi: quindi il loro utilizzo in caso di infestazioni ha efficacia davvero minima. É stato dimostrato che indurisce leggermente le pareti cellulari dei tessuti apicali, ma ciò non li rende realmente efficaci. In definitiva: se lo dobbiamo dare comunque per altre problematiche, va bene. Altrimenti optiamo per un prodotto specifico contro fitofagi, se vogliamo ridurre significativamente l’attacco.
I rameici si distribuiscono per lo più per irrorazione. Bisogna quindi diluire la polvere in acqua, seguendo con attenzione le dosi prescritte dal produttore per la specifica patologia e anche per la specifica coltura. Teniamo anche presenti i limiti annuali di utilizzo per la superficie del nostro appezzamento: se esageriamo, oltre ad andare oltre i limiti di legge, rischiamo nel tempo di causare un accumulo eccessivo di rame nel terreno con conseguente perdita dell’attività microbiologica, riduzione del numero di lombrichi e perciò riducendone sensibilmente la fertilità. Ricordiamo inoltre che il rame si lega in maniera stabile ad alcuni altri elementi presenti nel suolo, specialmente se questo è a reazione acida o se sono presenti alcuni tipi di argille: ciò significa che non ci saranno fenomeni di dilavamento e che il problema di accumulo non farà che aggravarsi nel tempo.
Le aziende agricole certificate biologiche devono rimanere sotto il limite dei 4 kg di rame all’ettaro per anno.Bisogna poi ricordare che il rame, specialmente per le drupacee, risulta estremamente fitotossico. Su queste piante va usato solo ‘a legno’ o al massimo ‘a bottone rosa’ per evitare gravi danni alla vegetazione. Inoltre è dannoso anche per gli insetti impollinatori, quindi durante la stagione della fioritura è bene evitare totalmente i trattamenti.
Vi è poi la questione del tempo di carenza: con questo termine si intende il periodo necessario al decadimento o al dilavamento di un composto. Per i rameici è fissato a 20 giorni: ciò significa che se prevediamo di raccogliere a breve dei frutti bisogna evitare per almeno le tre settimane precedenti di effettuare dei trattamenti con questo metallo.
Le alternative non sono molte, specialmente per chi non abbia conseguito il patentino per i fitofarmaci (tutto sommato alcuni di sintesi hanno maggiore efficacia e un minor impatto ambientale, se utilizzati con criterio). Se vogliamo evitare il rame possiamo puntare per esempio su alcuni macerati: quello di equiseto ha mostrato una buona efficacia, specie se ripetuto con frequenza.